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Il Vescovo nomina il Consiglio Presbiterale,  Consultori ed il Vicario Generale

Nei giorni scorsi il Vescovo di Città di Castello ha provveduto a perfezionare le nomine degli organismi, previsti dalle normative canoniche, essenziali per il governo della diocesi. Mons. Luciano Paolucci Bedini le ha comunicate anzitutto ai preti e diaconi riuniti in occasione dell’incontro mensile che si è svolto mercoledì 15 febbraio.  Don Andrea Czortek è il nuovo Vicario Generale della diocesi di Città di Castello. Nato ad Arezzo nel 1971, è stato ordinato sacerdote dal vescovo Pellegrino Tomaso Ronchi il 26 marzo 2006. Attualmente è parroco delle parrocchie di san Michele Arcangelo, San Francesco e Madonna delle Grazie. E’ pure direttore dell’archivio diocesano e della biblioteca “Storti-Guerri”. Svolge il proprio servizio anche nell’archivio diocesano della vicina Sansepolcro, città dove ha trascorso la giovinezza. Subentra nell’incarico a mons. Giovanni Cappelli.  Il Codice di Diritto Canonico ricorda che il compito del vicario generale è quello di prestare aiuto al Vescovo nel governo di tutta la diocesi. Contestualmente è stato rinnovato anche il Consiglio Presbiterale Diocesano. Ne fanno parte di diritto don Andrea Czortek, don Alberto Gildoni, Cancelliere vescovile e segretario del consiglio, don Filippo Milli (vicario della zona pastorale nord), don Nicola Testamigna (vicario della zona centro), don Stefano Sipos (vicario della zona sud). Completano questo organismo che, rappresentando il presbiterio, ha il compito di coadiuvare il Vescovo nel governo della diocesi, affinché sia promosso il bene pastorale della chiesa locale, don Francesco Mariucci, don Franco Sgoluppi, don Giancarlo Lepri, padre Stefano Nava, e don Adrian Barsan. Del Collegio dei Consultori fanno parte don Andrea Czortek, don Francesco Mariucci, don Filippo Milli, don Nicola Testamigna, don Franco Sgoluppi e don Stefano Sipos.

GIORNO DEL RICORDO DELLE FOIBE: IL DOLORE E LA SPERANZA

“Una tragedia a lungo dimenticata. Che abbiamo il dovere di ricordare, con obiettività, per preservare la verità storica del nostro passato. Un dramma che costò la vita a tanti innocenti e causò l’esilio di tanti italiani, perso-ne e famiglie intere, che furono costretti a fuggire dalle loro terre e dalle proprie case”.

Ogni anno, a partire dal 2004 per decisione del Parlamento, l’Italia celebra il 10 febbraio il Giorno del ricordo, dedicato alla commemo-razione di migliaia di vittime che tra il 1943 e il 1947 vennero cattura-te, uccise e gettate nelle cavità carsiche dell’Istria e della Dalmazia, le cosiddette foibe, dai partigiani jugoslavi di Tito e a quanti, istriani, fiumani e dalmati in quel tragico secondo dopoguerra, furono co-stretti a lasciare le loro terre. Si tratta di una complessa e dolorosa vicenda della storia italiana del Novecento a lungo trascurata che permette di non dimenticare tutte le cosiddette “pulizie etniche” e di ribadire il valore della pace.

L’orrore del Novecento, provocato da una pianificata volontà di epu-razione su base etnica e nazionalistica e coperto da una ingiustifica-bile cortina di silenzio ebbe iniziò nel 1943, dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre. In Istria e in Dalmazia i partigiani ju-goslavi di Tito si vendicarono contro i fascisti e la loro italianizzazio-ne forzata, vennero considerati nemici del popolo, e insieme agli italiani non comunisti, torturati e gettati nelle foibe, e così fu in seguito, durante tutto il tentativo di riconquista del territorio italiano fino a Trieste. Il risultato è che tra il maggio e il giugno del 1945 migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra, altri furono uccisi o deportati nei campi sloveni e croati. Si moriva con estrema crudeltà: nelle foibe i condannati venivano le-gati tra loro con un fil di ferro stretto ai polsi e fucilati in modo che si trascinassero nelle cavità gli uni con gli altri.

Il silenzio, le sacche di “deprecabile negazionismo militante” o il riduzionismo, sono gli ostacoli contro cui ancora si combatte per questa “sciagura nazionale”: lo scrive il capo dello Stato italiano Sergio Mattarella in occasione dell’odier-na Giornata, aggiungendo però che il vero avversario da battere, “più forte e più insidioso, è quello dell’indifferenza, del disinteresse, della noncuranza, che si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi”. Il capo dello Stato sottolinea anche che angosce e sofferenze sono un monito perenne “contro le ideologie e i regimi totalitari che negano i diritti fondamentali della persona “e rafforzano ciascuno nei propositi di difesa e promozione di pace e giu-stizia”.

Monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, ci ricorda di non dimenticare che “se si costruisce un mondo su odio e violenza non si va da nessuna parte”. I valori della verità, giustizia e libertà sono quelli portanti e certe ideologie – afferma- hanno un effetto distruttivo sulle coscienze e sulla convivenza umana. Ma è anche vero che esistono oggi vo-lontà e iniziative volte a ricostruire gli strappi e a risanare il tessuto sociale di quelle terre. Ruota intorno alle parole “ri-conciliazione” e “purificazione della memoria”, l’attività della Chiesa di quegli anni e di oggi, al confine nord orientale dell’Italia. “Dobbiamo concordemente continuare ad evangelizzare la riconciliazione e aprire, a partire da questo grande valore cri-stiano, una stagione di speranza e di futuro. La Chiesa giocò un ruolo di pacificazione e riconciliazione e pagò anche un tributo molto alto e non solo la diocesi di Trieste, ma anche diocesi croate e diocesi slovene. Voglio qui ricordare soprattutto tre figure di martiri che sono poi stati beatificati. Il primo beato che vorrei ricordare è Lojze Grozde, sloveno, poi Don Miroslav Bulesic, croato e il prete triesti-no don Francesco Bonifacio. Con la loro testimonianza di fede, una fede viva e vissuta, bonificarono, secondo me, gli orrori commessi in queste terre sotto la spinta di un’ideologia che, devo dire, prometteva il Paradiso e partorì l’Inferno. Questo mi sembra la sintesi di ciò che è stato, deve essere e deve continuare ad essere, il ruolo della Chiesa, un ruolo di riconciliazione, di purificazione della memoria e di evangelizzazione di quei valori portanti, che permettono la convi-venza sana di popoli diversi”.

Carissimi sorelle e fratelli,

il mese che cominciamo ci immerge nella riflessione e nella attenzione al tema della vita, in tutte le sue sfaccettature e nel dipanarsi delle sue differenti stagioni.
La vita è il mistero più grande che riceviamo e contempliao nel nostro cammino esistenziale. Tante e grandi sono le domande che l’accompagnano. Tutto quello che ci tocca e ci riguarda attiene al senso e al valore di questa vita che ci ritroviamo ad abitare nel tempo e nella storia. La sfida più grande, e perciò anche complessa e multiforme, è proprio quella del vivere la vita che ci è data, dentro le coordinate interiori ed esteriori in cui l’attraversiamo.
Così, nei giorni di questo mese di passaggio tra un tempo forte e l’altro, siamo invitati ad aprire gli occhi della coscienza davanti a tutte le vicissitudini che interessano la vi-ta, nostra e degli altri, presente e futura. La parola del Vangelo, e tutte le sue declinazioni che nel tempo lo hanno intessuto con la trama della storia, ci parlano della vita, della sua bellezza, della sua delicatezza e preziosità, della sua precarietà e della sua direzione eterna, della sua difesa e della sua custodia.
In occasione della festa del 2 febbraio per la Presentazione al Tempio di Gesù, la Chiesa ricorda e celebra la bellezza della vita consacrata, offerta a Dio e da Dio resa feconda, di uomini e donne che hanno scelto di donarla totalmente agli altri radicandola in Dio come risposta definitiva all’amore ricevuto. Ciò che è già benedetto da sempre quando appare nel grembo di una madre diventa vita donata nell’offerta di sé che i consacrati fanno liberamente nello stile del servizio per la costruzione del Regno di Dio.
La prima domenica di febbraio è da tanto tempo l’appuntamento con la responsabilità che ciascuno e insieme abbiamo di fronte ad ogni esistenza che riconosciamo come dono immenso e gratuito del Signore. La Vita, prima di tutto scoperta e accolta come dono. Ricevuta e custodita come un bene immenso da amare e difendere. Senza misure, senza condizioni, senza differenze che la diminuiscano o la offendano. La vita così com’è. Accompagnata e accolta dall’inizio al compimento, in ogni sua stagione, consapevoli che solo di una cosa la vita si nutre e solo di questa ha bisogno: l’amore di Dio raccontato e reso vicino dal nostro. Un vita senza aggettivi e mai lasciata da sola. In questo nostro sapere che scaturisce dalla fede è però nascosta una grande responsabilità a cui la comunità ecclesiale non può venir meno, pena la sua non credibilità. La responsabilità dell’esserci, accanto e con amore, ad ogni situazione di vita, buona o ferita, specie laddove c’è sofferenza e paura.
Ecco allora anche la giornata dell’11 febbraio, che nella memoria della Beata Vergine di Lourdes, celebra la cura e l’attenzione della Chiesa per i malati, le loro famiglie e coloro che li servono. Non un una tantum per fare vetrina di una distratta attenzione, ma il volano di una premura che dovrebbe annodare i giorni che scandiscono pesanti il tempo della sofferenza. Come ogni famiglia rallenta e prende il passo di chi più fatica quando la malattia irrompe nella sua storia, così ogni comunità cristiana non può non farsi attenta ai membri più fragili per ricalibrare il proprio cammino sulle cadenze di questi fratelli e sorelle.
Questo desiderio, e bisogno, di prendere sul serio la vita, come il dono di Dio da vive-re alla luce del suo amore e della sua misericordia, è il centro del cammino di Quare-sima che avrà inizio alla fine di questo mese. Veniamo invitati a percorrere insieme, come comunità, il sentiero luminoso della parola di Dio che ci guida alla sorgente stessa della vita e del suo rinnovamento nella Pasqua di Gesù Cristo, nostro salvatore.
Il Signore ci apra gli occhi e il cuore sul grande mistero della vita. Ci doni il suo Spirito perché possiamo sentire l’amore e la responsabilità della cura degli altri. La Vergine Madre ci educhi a pensare la nostra vita a partire dai fratelli e dalle sorelle che Dio ci ha donato.
don Luciano, vescovo

«Abbi cura di lui». La compassione come esercizio sinodale di guarigione

La malattia fa parte della nostra esperienza umana. Ma essa può diventare disumana se è vissuta nell’isolamento e nell’abbandono, se non è accompagnata dalla cura e dalla compassione. Quando si cammina insieme, è normale che qualcuno si senta male, debba fermarsi per la stanchezza o per qualche incidente di percorso. È lì, in quei momenti, che si vede come stiamo camminando: se è veramente un camminare insieme, o se si sta sulla stessa  strada ma ciascuno per conto proprio, badando ai propri interessi e lasciando che gli altri “si arrangino”. Perciò, in questa XXXI Giornata Mondiale del Malato, nel pieno di un percorso sinodale, vi invito a riflettere sul fatto che proprio attraverso l’esperienza della fragilità e della malattia possiamo imparare a camminare insieme secondo lo stile di Dio, che è vicinanza, compassione e tenerezza. Nel Libro del profeta Ezechiele, in un grande oracolo che costituisce uno dei punti culminanti di tutta la Rivelazione, il Signore parla così: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, […] le pascerò con giustizia» (34,15-16). L’esperienza dello smarrimento, della malattia e della debolezza fanno naturalmente parte del nostro cammino: non ci escludono dal popolo di Dio, anzi, ci portano al centro dell’attenzione del Signore, che è Padre e non vuole perdere per strada nemmeno uno dei suoi figli. Si tratta dunque di imparare da Lui, per essere davvero una comunità che cammina insieme, capace di non lasciarsi contagiare dalla cultura dello scarto. L’Enciclica Fratelli tutti, come sapete, propone una lettura attualizzata della parabola del Buon Samaritano. L’ho scelta come cardine, come punto di svolta, per poter uscire dalle “ombre di un mondo chiuso” e “pensare e generare un mondo aperto” (cfr n. 56). C’è infatti una connessione profonda tra questa parabola di Gesù e i molti modi in cui oggi la fraternità è negata. In particolare, il fatto che la persona malmenata e derubata viene abbandonata lungo la strada, rappresenta la condizione in cui sono lasciati troppi nostri fratelli e sorelle nel momento in cui hanno più bisogno di aiuto.
Distinguere quali assalti alla vita e alla sua dignità provengano da cause naturali e quali invece siano causati da ingiustizie e violenze non è facile. In realtà, il livello delle disuguaglianze e il prevalere degli interessi di pochi incidono ormai su ogni ambiente umano in modo tale, che risulta difficile considerare “naturale” qualunque esperienza. Ogni sofferenza si
realizza in una “cultura” e fra le sue contraddizioni. Ciò che qui importa, però, è riconoscere la condizione di solitudine, di abbandono. Si tratta di un’atrocità che
può essere superata prima di qualsiasi altra ingiustizia, perché – come racconta la parabola – a eliminarla basta un attimo di attenzione, il movimento interiore della compassione. Due passanti, considerati religiosi, vedono il ferito e non si fermano. Il terzo, invece, un samaritano, uno che è oggetto di disprezzo, è mosso a compassione e si prende cura di quell’estraneo lungo la strada, trattandolo da fratello. Così facendo, senza nemmeno pensarci, cambia le cose, genera un mondo più fraterno. Fratelli, sorelle, non siamo mai pronti per la malattia. E spesso nemmeno per ammettere l’avanzare dell’età. Temiamo la vulnerabilità e la pervasiva cultura del mercato ci spinge a negarla. Per la fragilità non c’è spazio. E così il male, quando irrompe e ci assale, ci lascia a terra tramortiti. Può accadere, allora, che gli altri ci abbandonino, o che paia a noi di doverli abbandonare, per non sentirci un peso nei loro confronti. Così inizia la solitudine, e ci avvelena il
senso amaro di un’ingiustizia per cui sembra chiudersi anche il Cielo. Fatichiamo infatti a rimanere in pace con Dio, quando si rovina il rapporto con gli altri e con noi stessi. Ecco perché è così importante, anche riguardo alla malattia, che la Chiesa intera si misuri con l’esempio evangelico del buon samaritano, per diventare un valido “ospedale da campo”: la sua missione, infatti, particolarmente nelle circostanze storiche che attraversiamo, si esprime nell’esercizio della cura. Tutti siamo fragili e vulnerabili; tutti abbiamo bisogno di quell’attenzione compassionevole che sa fermarsi, avvicinarsi, curare e sollevare. La condizione degli infermi è quindi un appello ce interrompe l’indifferenza e frena il passo di chi avanza come se non avesse sorelle e fratelli.
La Giornata Mondiale del Malato, in effetti, non invita soltanto alla preghiera e alla prossimità verso i sofferenti; essa, nello stesso tempo, mira a sensibilizzare il popolo di Dio, le istituzioni sanitarie e la società civile a un nuovo modo di avanzare insieme. La profezia di Ezechiele citata all’inizio contiene un giudizio molto duro sulle priorità di coloro che esercitano sul popolo un potere economico, culturale e di governo: «Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza» (34,3-4). La Parola di Dio è sempre illuminante e contemporanea. Non solo nella denuncia, ma anche nella proposta. La conclusione della parabola del Buon Samaritano, infatti, ci suggerisce come l’esercizio della fraternità, iniziato da un incontro a tu per tu, si possa allargare a una cura organizzata. La locanda, l’albergatore, il denaro, la promessa di tenersi informati a vicenda (cfr Lc 10,34-35): tutto questo fa pensare al ministero di sacerdoti, al lavoro di operatori sanitari e sociali, all’impegno di familiari e volontari grazie ai quali ogni giorno, in ogni parte di mondo, il bene si oppone al male.
Gli anni della pandemia hanno aumentato il nostro senso di gratitudine per chi opera ogni giorno per la salute e la ricerca. Ma da una così grande tragedia collettiva non basta uscire onorando degli eroi. Il Covid-19 ha messo a dura prova questa grande rete di competenze e di solidarietà e ha mostrato i limiti strutturali dei sistemi di welfare esistenti.
Occorre pertanto che alla gratitudine corrisponda il ricercare attivamente, in ogni Paese, le strategie e le risorse perché ad ogni essere umano sia garantito l’accesso alle cure e il diritto fondamentale alla salute. «Abbi cura di lui» (Lc 10,35) è la raccomandazione del Samaritano all’albergatore. Gesù la rilancia anche ad ognuno di noi, e alla fine ci esorta: «Va’ e anche tu fa’ così». Come ho sottolineato in Fratelli tutti, «la parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che
non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune» (n. 67). Infatti, «siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile» (n. 68).
Anche l’11 febbraio 2023, guardiamo al Santuario di Lourdes come a una profezia, una lezione affidata alla Chiesa nel cuore della modernità. Non vale solo ciò che funziona e non conta solo chi produce. Le persone malate sono al centro del popolo di Dio, che avanza insieme a loro come profezia di un’umanità in cui ciascuno è prezioso e nessuno è da scartare.
All’intercessione di Maria, Salute degli infermi, affido ognuno di voi, che siete malati; voi che ve ne prendete cura in famiglia, con il lavoro, la ricerca e il volontariato; e voi che vi impegnate a tessere legami personali, ecclesiali e civili di fraternità. A tutti invio di cuore la mia benedizione apostolica.
Roma, San Giovanni in Laterano, 10 gennaio 2023.

Corso di iconografia

Torna a Montone il corso di iconografia delle Suore Clarisse Sono aperte le iscrizioni al nuovo corso di iconografia che verrà realizzato in primavera nel Monastero delle Clarisse di Montone. Sei gli incontri, proposti dalla Sorelle Clarisse, per scoprire e imparare antiche tecniche applicate all’immagine dell’icona. Si tratta di un corso teorico e pratico della pittura dell’icona secondo la tecnica tradizionale della tempera all’uovo, che sarà tenuto dall’iconografa Laura Rossi nelle domeniche dei mesi di marzo, aprile e maggio. “In questa occasione – spiega Laura Rossi – andremo a realizzare l’icona dell’Arcangelo Michele di Andrej Rublev. Si partirà dalla spiegazione del soggetto scelto, con l’aggiunta di alcune note di disegno per poi lavorare sulla tavola gessata iniziando con l’applicazione della foglia oro. Si proseguirà con la pittura in diversi strati utilizzando la tempera all’uovo e i pigmenti colorati in polvere. Tutti i materiali sono compresi nel costo del corso e ogni partecipante, al termine del percorso, porterà a casa la propria icona benedetta”. Le iscrizioni sono aperte fino al 28 febbraio ed è prevista la partecipazione di 12 persone. Il corso si svolgerà nelle domeniche 12 e 26 marzo, 16 e 30 aprile e 14 e 21 maggio. Ogni incontro prevede dalle ore 9 alle ore 11 la spiegazione e la scrittura, poi la santa messa e il pranzo al sacco e dalle ore 14 alle ore 18 la scrittura dell’icona per terminare con la preghiera conclusiva. Per iscrizioni e maggiori informazioni è possibile contattare Suor Gloria del Monastero Clarisse al numero di telefono 075 9306140 o tramite email monastero.santagnese@gmail.com e Laura Rossi ai numeri 338 6106305-075 9414419, email laura290668@gmail.com.

Caritas diocesana di Città di Castello: è uscito il bando per partecipare al Servizio Civile

È uscito il bando per partecipare al Servizio Civile per l’anno 2023/24.

Caritas diocesana di Città di Castello seleziona 11 operatori e operatrici volontari/e per i seguenti progetti:

2 posti alla Mensa Diocesana;

2 posti all’Emporio della Solidarietà San Giorgio;

1 posto nel Centro di Ascolto;

2 posti all’Oratorio San Giovanni Bosco;

2 posti all’Oratorio S. Maria e S. Giuliano di Riosecco;

2 posti all’Oratorio Ore D’oro di Trestina.

Cos’è il servizio civile?

Il Servizio Civile Universale è un’occasione di formazione e di crescita personale e professionale per i giovani dai 18 ai 29 anni non compiuti.

È un’esperienza di protagonismo giovanile e cittadinanza attiva!

In breve:

dura 12 mesi;

25 ore alla settimana;

rimborso spese di 444,30 euro al mese;

Scadenza iscrizioni 10 Febbraio 2023 ore 14:00

Per tutte le informazioni puoi chiamarci o scriversi su whatsapp:

3792149166

0758553911

La domanda deve essere presentata solo online tramite SPID

Un nuovo altare per la Madonna delle Grazie

Da alcune settimane si sono conclusi i lavori di consolidamento, restauro e adeguamento liturgico della cappella della Madonna delle Grazie, cuore dell’omonimo santuario, a Città di Castello.
I lavori hanno preso avvio nell’estate del 2020 e sono stati sostenuti da un contributo derivante dai fondi dell’8×1000 destinato alla Chiesa Cattolica, dalla Diocesi di Città di Castello, dalla Parrocchia di Santa Maria delle Grazie e da una sottoscrizione popolare alla quale hanno aderito 171 soggetti tra privati, associazioni e istituti religiosi. 
Il progetto ha permesso il pieno recupero artistico e l’adeguamento funzionale di uno dei luoghi maggiormente legato alla storia religiosa e culturale della città, grazie al restauro del ciclo di affreschi di Bernardino Gagliardi (1643/1644), delle decorazioni di Elia Volpi (1934/1935) e dei fratelli Alvaro e Nemo Sarteanesi (1977/1978) e del portale seicentesco che si affaccia su Piazza Servi di Maria. Altri lavori hanno riguardatogli impianti elettrico e di riscaldamento, la bonifica del sottopavimento, la sicurezza strutturale. I risultati di questa impegnativa operazione, che ha coinvolto in massima parte aziende e professionisti del territorio, saranno presentati sabato 4 febbraio, alle ore 17, dal parroco, don Andrea Czortek, dall’economo diocesano, avv. Aldo Benedetti,
e dall’arch. Francesco Rosi; porteranno il proprio saluto il vescovo diocesano, mons.
Luciano Paolucci Bedini, e il sindaco di Città di Castello, dott. Luca Secondi.
Domenica 5 febbraio, giorno nel quale ricorrono i 717 anni dalla posa della prima
pietra per la costruzione della chiesa, mons. Paolucci Bedini presiederà la solenne concelebrazione nel corso della quale sarà dedicato il nuovo altare della cappella laterale nella quale si conserva la venerata immagine della Madonna delle Grazie, patrona di Città di Castello e della diocesi. Sarà presente anche mons. Domenico Cancian, vescovo emerito di Città di Castello, che negli anni del suo episcopato ha fortemente sostenuto e incoraggiato l’esecuzione dei lavori.
Per preparare la comunità a vivere questo importante momento e a comprenderne il significato, venerdì 3 febbraio, alle ore 21, si terrà un incontro con don Luciano Avenati, liturgista.
Infine, domenica 12 febbraio, alle ore 17, la Corale “Marietta Alboni”, diretta dal m.° Marcello Marini, proporrà un concerto di musiche mariane. Tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del progetto sono invitati a partecipare, insieme a tutti gli interessati, ai vari momenti in programma. Sabato 4 alle ore 16:30, il direttore dei lavori ed il parroco saranno disponibili per incontrare la stampa.

La 45a Giornata Nazionale per la vita

Il diffondersi di una “cultura di morte” In questo nostro tempo, quando l’esistenza si fa complessa e impegnativa, quando sembra che la sfida sia insuperabile e il peso insopportabile, sempre più spesso si approda a una “soluzione” drammatica: dare la morte. Certamente a ogni persona e situazione sono dovuti rispetto e pietà, con quello sguardo carico di empatia e misericordia che scaturisce dal Vangelo. Siamo infatti consapevoli che certe decisioni maturano in condizioni di solitudine, di carenza di cure, di paura dinanzi all’ignoto… È il mistero del male che tutti sgomenta, credenti e non. Ciò, tuttavia, non elimina la preoccupazione che nasce dal constatare come il produrre morte stia progressivamente diventando una risposta pronta, economica e immediata a una serie di problemi personali e sociali. Tanto più che dietro tale “soluzione” è possibile riconoscere importanti inte-ressi economici e ideologie che si spacciano per ragionevoli e misericordiose, mentre non lo sono affatto. Quando un figlio non lo posso mantenere, non l’ho voluto, quando so che nascerà disabile o credo che limi-terà la mia libertà o metterà a rischio la mia vita… la soluzione è spesso l’aborto. Quando una malattia non la posso sopportare, quando rimango solo, quando perdo la speranza, quando vengono a mancare le cure palliative, quando non sopporto veder soffrire una persona cara… la via d’uscita può consistere nell’eutanasia o nel “suicidio assistito”. Quando la relazione con il partner diventa difficile, perché non risponde alle mie aspettative… a volte l’esito è una violenza che arriva a uccidere chi si amava – o si credeva di amare –, sfogandosi persino sui piccoli e all’interno delle mura domestiche. Quando il male di vivere si fa insostenibile e nessuno sembra bucare il muro della solitudine… si finisce non di rado col decidere di togliersi la vita. Quando l’accoglienza e l’integrazione di chi fugge dalla guerra o dalla miseria comportano problemi eco-nomici, culturali e sociali… si preferisce abbandonare le persone al loro destino, condannandole di fatto a una morte ingiusta. Quando si acuiscono le ragioni di conflitto tra i popoli… i potenti e i mercanti di morte ripropongono sem-pre più spesso la “soluzione” della guerra, scegliendo e propagandando il linguaggio devastante delle armi, funzionale soprattutto ai loro interessi. Così, poco a poco, la “cultura di morte” si diffonde e ci contagia. Per una “cultura di vita” Il Signore crocifisso e risorto – ma anche la retta ragione – ci indica una strada diversa: dare non la morte ma la vita, generare e servire sempre la vita. Ci mostra come sia possibile coglierne il senso e il valore anche quando la sperimentiamo fragile, minacciata e faticosa. Ci aiuta ad accogliere la drammatica prepotenza della malattia e il lento venire della morte, schiudendo il mistero dell’origine e della fine. Ci insegna a con-dividere le stagioni difficili della sofferenza, della malattia devastante, delle gravidanze che mettono a soq-quadro progetti ed equilibri… offrendo relazioni intrise di amore, rispetto, vicinanza, dialogo e servizio. Ci guida a lasciarsi sfidare dalla voglia di vivere dei bambini, dei disabili, degli anziani, dei malati, dei migranti e di tanti uomini e donne che chiedono soprattutto rispetto, dignità e accoglienza. Ci esorta a educare le nuove generazioni alla gratitudine per la vita ricevuta e all’impegno di custodirla con cura, in sé e negli altri. Ci muove a rallegrarci per i tanti uomini e le donne, credenti di tutte le fedi e non credenti, che affrontano i problemi producendo vita, a volte pagando duramente di persona il loro impegno; in tutti costoro ricono-sciamo infatti l’azione misteriosa e vivificante dello Spirito, che rende le creature “portatrici di salvezza”. A queste persone e alle tante organizzazioni schierate su diversi fronti a difesa della vita va la nostra ricono-scenza e il nostro incoraggiamento.
Ma poi, dare la morte funziona davvero? D’altra parte, è doveroso chiedersi se il tentativo di risolvere i problemi eliminando le persone sia davvero efficace. Siamo sicuri che la banalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza elimini la ferita profonda che genera nell’animo di molte donne che vi hanno fatto ricorso? Donne che, in moltissimi casi, avrebbero po-tuto essere sostenute in una scelta diversa e non rimpianta, come del resto prevedrebbe la stessa legge 194 all’art.5. È questa la consapevolezza alla base di un disagio culturale e sociale che cresce in molti Paesi e che, al di là di indebite polarizzazioni ideologiche, alimenta un dibattito profondo volto al rinnovamento delle normative e al riconoscimento della preziosità di ogni vita, anche quando ancora celata agli occhi: l’esistenza di ciascuno resta unica e inestimabile in ogni sua fase. Siamo sicuri che il suicidio assistito o l’eutanasia rispettino fino in fondo la libertà di chi li sceglie – spesso sfinito dalla carenza di cure e relazioni – e manifestino vero e responsabile affetto da parte di chi li accom-pagna a morire? Siamo sicuri che la radice profonda dei femminicidi, della violenza sui bambini, dell’aggressività delle baby gang… non sia proprio questa cultura di crescente dissacrazione della vita? Siamo sicuri che dietro il crescente fenomeno dei suicidi, anche giovanili, non ci sia l’idea che “la vita è mia e ne faccio quello che voglio?” Siamo sicuri che la chiusura verso i migranti e i rifugiati e l’indifferenza per le cause che li muovono siano la strategia più efficace e dignitosa per gestire quella che non è più solo un’emergenza? Siamo sicuri che la guerra, in Ucraina come nei Paesi dei tanti “conflitti dimenticati”, sia davvero capace di superare i motivi da cui nasce? «Mentre Dio porta avanti la sua creazione, e noi uomini siamo chiamati a collaborare alla sua opera, la guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra i fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione» (Francesco, Omelia al sacrario di Redipuglia, 13 settembre 2014). La “cultura di morte”: una questione seria Dare la morte come soluzione pone una seria questione etica, poiché mette in discussione il valore della vi-ta e della persona umana. Alla fondamentale fiducia nella vita e nella sua bontà – per i credenti radicata nel-la fede – che spinge a scorgere possibilità e valori in ogni condizione dell’esistenza, si sostituisce la superbia di giudicare se e quando una vita, foss’anche la propria, risulti degna di essere vissuta, arrogandosi il diritto di porle fine. Desta inoltre preoccupazione il constatare come ai grandi progressi della scienza e della tecni-ca, che mettono in condizione di manipolare ed estinguere la vita in modo sempre più rapido e massivo, non corrisponda un’adeguata riflessione sul mistero del nascere e del morire, di cui non siamo evidentemen-te padroni. Il turbamento di molti dinanzi alla situazione in cui tante persone e famiglie hanno vissuto la malattia e la morte in tempo di Covid ha mostrato come un approccio meramente funzionale a tali dimen-sioni dell’esistenza risulti del tutto insufficiente. Forse è perché abbiamo perduto la capacità di comprendere e fronteggiare il limite e il dolore che abitano l’esistenza, che crediamo di porvi rimedio attraverso la morte? Rinnovare l’impegno La Giornata per la vita rinnovi l’adesione dei cattolici al “Vangelo della vita”, l’impegno a smascherare la “cultura di morte”, la capacità di promuovere e sostenere azioni concrete a difesa della vita, mobilitando sempre maggiori energie e risorse. Rinvigorisca una carità che sappia farsi preghiera e azione: anelito e an-nuncio della pienezza di vita che Dio desidera per i suoi figli; stile di vita coniugale, familiare, ecclesiale e sociale, capace di seminare bene, gioia e speranza anche quando si è circondati da ombre di morte.

Roma, 21 settembre 2022 IL CONSIGLIO EPISCOPALE PERMANENTE