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MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO PER LA QUARESIMA – Ascesi quaresimale, itinerario sinodale

Cari fratelli e sorelle,
I vangeli di Matteo, Marco e Luca sono concordi nel raccontare l’episodio della Trasfigurazione di Gesù. In questo avvenimento vediamo la risposta del Signore all’incomprensione che i
suoi discepoli avevano manifestato nei suoi confronti. Poco prima, infatti, c’era stato un vero e proprio scontro tra il Maestro e Simon Pietro, il quale, dopo aver professato la sua
fede in Gesù come il Cristo, il Figlio di Dio, aveva respinto il suo annuncio della passione e della croce. Gesù lo aveva rimproverato con forza: «Va’ dietro a me, satana! Tu mi sei di
scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!” (Mt 16,23). Ed ecco che «sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte» (Mt 17,1). Il Vangelo della Trasfigurazione viene proclamato ogni anno nella seconda Domenica di Quaresima. In effetti, in questo tempo liturgico il Signore ci prende con sé e ci conduce in disparte. Anche se i nostri impegni ordinari ci chiedono di rimanere nei luoghi di sempre, vivendo un quotidiano spesso ripetitivo e a volte noioso, in Quaresima siamo invitati a “salire su un alto monte” insieme a Gesù, per vivere con il Popolo santo di Dio una particolare esperienza di ascesi. L’ascesi quaresimale è un impegno, sempre animato dalla Grazia, per superare le nostre mancanze di fede e le resistenze a seguire Gesù sul cammino della croce. Proprio come ciò di cui aveva bisogno Pietro e gli altri discepoli. Per approfondire la nostra conoscenza del Maestro, per comprendere e accogliere fino in fondo il mistero della salvezza divina, realizzata nel dono totale di sé per amore, bisogna lasciarsi condurre da Lui in disparte e in alto, distaccandosi dalle mediocrità e dalle vanità. Bisogna mettersi in cammino, un cammino in salita, che richiede sforzo, sacrificio e concentrazione, come una escursione in montagna. Questi requisiti sono importanti anche per il cammino sinodale che, come Chiesa, ci siamo impegnati a realizzare. Ci farà bene riflettere su questa relazione che esiste tra
l’ascesi quaresimale e l’esperienza sinodale. Nel “ritiro” sul monte Tabor, Gesù porta con sé tre discepoli, scelti per essere testimoni di un avvenimento unico. Vuole che quella esperienza di grazia non sia solitaria, ma condivisa, come lo è, del resto, tutta la nostra vita di fede. Gesù lo si segue insieme. E insieme, come Chiesa pellegrina nel tempo, si vive l’anno liturgico e, in esso, la Quaresima, camminando con coloro che il Signore ci ha posto accanto come compagni di viaggio. Analogamente all’ascesa di Gesù e dei discepoli al Monte Tabor, possiamo dire che il nostro cammino quaresimale è “sinodale”, perché lo compiamo insieme sulla stessa via, discepoli dll’unico Maestro. Sappiamo, anzi, che Lui stesso è la Via, e dunque, sia nell’itinerario liturgico sia in quello del Sinodo, la Chiesa altro non fa che entrare sempre più profondamente e pienamente nel mistero di Cristo Salvatore. E arriviamo al momento culminante. Narra il Vangelo che Gesù «fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,2). Ecco la “cima”, la meta del cammino. Al termine della salita, mentre stanno sull’alto monte con Gesù, ai tre discepoli è data la grazia di vederlo nella sua gloria, splendente di luce soprannaturale, che non veniva da fuori, ma si irradiava da Lui stesso. La divina bellezza di questa visione fu incomparabilmente superiore a qualsiasi fatica che i discepoli potessero aver fatto nel salire sul Tabor. Come in ogni impegnativa
escursione in montagna: salendo bisogna tenere lo sguardo ben fisso al sentiero; ma il panorama che si spalanca alla fine sorprende e ripaga per la sua meraviglia. Anche il processo sinodale appare spesso arduo e a volte ci potremmo scoraggiare. Ma quello che ci attende al termine è senz’altro qualcosa di meraviglioso e sorprendente, che ci aiuterà a comprendere meglio la volontà di Dio e la nostra missione al servizio del suo Regno. L’esperienza dei discepoli sul Monte Tabor si arricchisce ulteriormente quando, accanto a Gesù trasfigurato, appaiono Mosè ed Elia, che impersonano rispettivamente la Legge e i Profeti (cfr Mt 17,3). La novità del Cristo è compimento dell’antica Alleanza e delle promesse; è inseparabile dalla storia di
Dio con il suo popolo e ne rivela il senso profondo. Analogamente, il percorso sinodale è radicato nella tradizione della Chiesa e al tempo stesso aperto verso la novità. La tradizione è fonte di ispirazione per cercare strade nuove, evitando le opposte tentazioni dell’immobilismo e della sperimentazione improvvisata.
Il cammino ascetico quaresimale e, similmente, quello sinodale, hanno entrambi come meta una trasfigurazione, personale ed ecclesiale. Una trasformazione che, in ambedue i casi, trova il suo
modello in quella di Gesù e si opera per la grazia del suo mistero pasquale. Affinché tale trasfigurazione si possa realizzare in noi quest’anno, vorrei proporre due “sentieri” da seguire per salire insieme a Gesù e giungere con Lui alla meta. Il primo fa riferimento all’imperativo che Dio Padre rivolge ai discepoli sul Tabor, mentre contemplano Gesù trasfigurato. La voce dalla nube dice: «Ascoltatelo» (Mt 17,5). Dunque la prima indicazione è molto chiara: ascoltare Gesù. La Quaresima è tempo di grazia nella misura in cui ci mettiamo in ascolto di Lui che ci parla. E come ci parla? Anzitutto nella Parola di Dio, che la Chiesa ci offre nella Liturgia: non lasciamola cadere nel vuoto; se non possiamo partecipare sempre alla Messa, leggiamo le Letture bibliche giorno per giorno, anche con l’aiuto di internet. Oltre che nelle Scritture, il Signore ci parla nei fratelli, soprattutto nei volti e nelle storie di coloro che hanno bisogno di aiuto. Ma vorrei aggiungere anche un altro aspetto, molto importante nel processo sinodale: l’ascolto di Cristo passa anche attraverso l’ascolto dei fratelli e delle sorelle nella Chiesa, quell’ascolto reciproco che in alcune fasi è l’obiettivo principale ma che comunque rimane sempre indispensabile nel metodo e nello stile di una Chiesa sinodale.
All’udire la voce del Padre, «i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”. Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo» (Mt 17,6-8). Ecco la seconda indicazione per questa Quaresima: non rifugiarsi in una religiosità fatta di eventi straordinari, di esperienze suggestive, per paura di affrontare la realtà con le sue fatiche quotidiane, le sue durezze e le sue contraddizioni. La luce che Gesù mostra ai discepoli è un anticipo della gloria pasquale, e verso quella bisogna andare, seguendo “Lui solo”. La Quaresima è orientata alla Pasqua: il “ritiro” non è fine a sé stesso, ma ci prepara a vivere con fede, speranza e amore la passione e la croce, per giungere alla risurrezione. Anche il percorso sinodale non deve illuderci di essere arrivati quando Dio ci dona la grazia di alcune esperienze forti di comunione.
Anche lì il Signore ci ripete: «Alzatevi e non temete». Scendiamo nella pianura, e la grazia sperimentata ci sostenga nell’essere artigiani di sinodalità nella vita ordinaria delle nostre comunità. Cari fratelli e sorelle, lo Spirito Santo ci animi in questa Quaresima nell’ascesa con Gesù, per fare esperienza del suo splendore divino e così, rafforzati nella fede, proseguire insieme il cammino con Lui, gloria del suo popolo e luce delle genti. Roma, San Giovanni in Laterano, 25 gennaio, festa della Conversione di San Paolo
Francesco

Fiaccolata per la Pace organizzata dalla Caritas diocesana

 

In occasione del primo anniversario dall’inizio della guerra in Ucraina la Caritas Diocesana di Città di Castello ha organizzato una FIACCOLATA PER LA PACE che avrà luogo venerdì 24 febbraio. Appuntamento alle ore 20.45 presso la Chiesa di San Francesco in Città di Castello. La fiaccolata  raggiungerà il Monastero di Santa Veronica dove, alle ore 21, verrà animata la Via Crucis presieduta da don Andrea Czortek, vicario generale della diocesi. L’equipe della caritas, invitando a partecipare al momento di preghiera, sottolinea che il grido della pace non può essere soppresso. Emblematiche al riguardo alcune parole di Papa Francesco; “Sale dal cuore delle madri, è scritta sui volti dei profughi, delle famiglie in fuga, dei feriti o dei morenti. E questo grido silenzioso sale al Cielo. Non conosce formule magiche per uscire dai conflitti, ma ha il diritto sacrosanto di chiedere pace in nome delle sofferenze patite, e merita ascolto. Merita che tutti, a partire dai governanti, si chinino ad ascoltare con serietà e rispetto.”

Gruppo proveniente da Venezia visita il museo diocesano

Un gruppo di 32 persone ha visitato il Museo diocesano e il Campanile cilindrico ammirando sia le opere conservate che la struttura architettonica sapientemente recuperata.  Provenienti da Calcroci e Lughetti in provincia di Venezia, accompagnati da don Andrea Zanchetta della diocesi di Padova il gruppo ha seguito con attenzione la visita guidata ponendo molte domande sulle opere conservate al Museo ma anche sulCampanile. Presenti nel gruppo anche due comunità di Suore Francescane Adoratrici della Santa Croce partecipi della spiegazione e curiose dei tesori conservati nella struttura. Apprezzate non solo le opere di oreficeria e quelle pittoriche ma  anche il Campanile cilindrico protagonista della parte finale dell’itinerario di visita. Tutto il gruppo con entusiasmo è salito fino al primo ordine di aperture ammirando dall’alto la città: nel pomeriggio tappa dalle suore urbaniste di Santa Cecilia per poi proseguire in direzione di Cascia in visita al Santuario di Santa Rita.

Un bel momento di incontro tra fede e arte organizzato da Novaitinera Agenzia diocesana di viaggi e pellegrinaggi, molto partecipato e seguito con entusiasmo da tutti i componenti. Le strutture diocesane sono pronte ad accogliere dunque gruppi più o meno numerosi guidandoli alla scoperta del ricco patrimonio culturale conservato nelle sale museali.

Catia Cecchetti

 

Il Vescovo nomina il Consiglio Presbiterale,  Consultori ed il Vicario Generale

Nei giorni scorsi il Vescovo di Città di Castello ha provveduto a perfezionare le nomine degli organismi, previsti dalle normative canoniche, essenziali per il governo della diocesi. Mons. Luciano Paolucci Bedini le ha comunicate anzitutto ai preti e diaconi riuniti in occasione dell’incontro mensile che si è svolto mercoledì 15 febbraio.  Don Andrea Czortek è il nuovo Vicario Generale della diocesi di Città di Castello. Nato ad Arezzo nel 1971, è stato ordinato sacerdote dal vescovo Pellegrino Tomaso Ronchi il 26 marzo 2006. Attualmente è parroco delle parrocchie di san Michele Arcangelo, San Francesco e Madonna delle Grazie. E’ pure direttore dell’archivio diocesano e della biblioteca “Storti-Guerri”. Svolge il proprio servizio anche nell’archivio diocesano della vicina Sansepolcro, città dove ha trascorso la giovinezza. Subentra nell’incarico a mons. Giovanni Cappelli.  Il Codice di Diritto Canonico ricorda che il compito del vicario generale è quello di prestare aiuto al Vescovo nel governo di tutta la diocesi. Contestualmente è stato rinnovato anche il Consiglio Presbiterale Diocesano. Ne fanno parte di diritto don Andrea Czortek, don Alberto Gildoni, Cancelliere vescovile e segretario del consiglio, don Filippo Milli (vicario della zona pastorale nord), don Nicola Testamigna (vicario della zona centro), don Stefano Sipos (vicario della zona sud). Completano questo organismo che, rappresentando il presbiterio, ha il compito di coadiuvare il Vescovo nel governo della diocesi, affinché sia promosso il bene pastorale della chiesa locale, don Francesco Mariucci, don Franco Sgoluppi, don Giancarlo Lepri, padre Stefano Nava, e don Adrian Barsan. Del Collegio dei Consultori fanno parte don Andrea Czortek, don Francesco Mariucci, don Filippo Milli, don Nicola Testamigna, don Franco Sgoluppi e don Stefano Sipos.

GIORNO DEL RICORDO DELLE FOIBE: IL DOLORE E LA SPERANZA

“Una tragedia a lungo dimenticata. Che abbiamo il dovere di ricordare, con obiettività, per preservare la verità storica del nostro passato. Un dramma che costò la vita a tanti innocenti e causò l’esilio di tanti italiani, perso-ne e famiglie intere, che furono costretti a fuggire dalle loro terre e dalle proprie case”.

Ogni anno, a partire dal 2004 per decisione del Parlamento, l’Italia celebra il 10 febbraio il Giorno del ricordo, dedicato alla commemo-razione di migliaia di vittime che tra il 1943 e il 1947 vennero cattura-te, uccise e gettate nelle cavità carsiche dell’Istria e della Dalmazia, le cosiddette foibe, dai partigiani jugoslavi di Tito e a quanti, istriani, fiumani e dalmati in quel tragico secondo dopoguerra, furono co-stretti a lasciare le loro terre. Si tratta di una complessa e dolorosa vicenda della storia italiana del Novecento a lungo trascurata che permette di non dimenticare tutte le cosiddette “pulizie etniche” e di ribadire il valore della pace.

L’orrore del Novecento, provocato da una pianificata volontà di epu-razione su base etnica e nazionalistica e coperto da una ingiustifica-bile cortina di silenzio ebbe iniziò nel 1943, dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre. In Istria e in Dalmazia i partigiani ju-goslavi di Tito si vendicarono contro i fascisti e la loro italianizzazio-ne forzata, vennero considerati nemici del popolo, e insieme agli italiani non comunisti, torturati e gettati nelle foibe, e così fu in seguito, durante tutto il tentativo di riconquista del territorio italiano fino a Trieste. Il risultato è che tra il maggio e il giugno del 1945 migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra, altri furono uccisi o deportati nei campi sloveni e croati. Si moriva con estrema crudeltà: nelle foibe i condannati venivano le-gati tra loro con un fil di ferro stretto ai polsi e fucilati in modo che si trascinassero nelle cavità gli uni con gli altri.

Il silenzio, le sacche di “deprecabile negazionismo militante” o il riduzionismo, sono gli ostacoli contro cui ancora si combatte per questa “sciagura nazionale”: lo scrive il capo dello Stato italiano Sergio Mattarella in occasione dell’odier-na Giornata, aggiungendo però che il vero avversario da battere, “più forte e più insidioso, è quello dell’indifferenza, del disinteresse, della noncuranza, che si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi”. Il capo dello Stato sottolinea anche che angosce e sofferenze sono un monito perenne “contro le ideologie e i regimi totalitari che negano i diritti fondamentali della persona “e rafforzano ciascuno nei propositi di difesa e promozione di pace e giu-stizia”.

Monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, ci ricorda di non dimenticare che “se si costruisce un mondo su odio e violenza non si va da nessuna parte”. I valori della verità, giustizia e libertà sono quelli portanti e certe ideologie – afferma- hanno un effetto distruttivo sulle coscienze e sulla convivenza umana. Ma è anche vero che esistono oggi vo-lontà e iniziative volte a ricostruire gli strappi e a risanare il tessuto sociale di quelle terre. Ruota intorno alle parole “ri-conciliazione” e “purificazione della memoria”, l’attività della Chiesa di quegli anni e di oggi, al confine nord orientale dell’Italia. “Dobbiamo concordemente continuare ad evangelizzare la riconciliazione e aprire, a partire da questo grande valore cri-stiano, una stagione di speranza e di futuro. La Chiesa giocò un ruolo di pacificazione e riconciliazione e pagò anche un tributo molto alto e non solo la diocesi di Trieste, ma anche diocesi croate e diocesi slovene. Voglio qui ricordare soprattutto tre figure di martiri che sono poi stati beatificati. Il primo beato che vorrei ricordare è Lojze Grozde, sloveno, poi Don Miroslav Bulesic, croato e il prete triesti-no don Francesco Bonifacio. Con la loro testimonianza di fede, una fede viva e vissuta, bonificarono, secondo me, gli orrori commessi in queste terre sotto la spinta di un’ideologia che, devo dire, prometteva il Paradiso e partorì l’Inferno. Questo mi sembra la sintesi di ciò che è stato, deve essere e deve continuare ad essere, il ruolo della Chiesa, un ruolo di riconciliazione, di purificazione della memoria e di evangelizzazione di quei valori portanti, che permettono la convi-venza sana di popoli diversi”.

Carissimi sorelle e fratelli,

il mese che cominciamo ci immerge nella riflessione e nella attenzione al tema della vita, in tutte le sue sfaccettature e nel dipanarsi delle sue differenti stagioni.
La vita è il mistero più grande che riceviamo e contempliao nel nostro cammino esistenziale. Tante e grandi sono le domande che l’accompagnano. Tutto quello che ci tocca e ci riguarda attiene al senso e al valore di questa vita che ci ritroviamo ad abitare nel tempo e nella storia. La sfida più grande, e perciò anche complessa e multiforme, è proprio quella del vivere la vita che ci è data, dentro le coordinate interiori ed esteriori in cui l’attraversiamo.
Così, nei giorni di questo mese di passaggio tra un tempo forte e l’altro, siamo invitati ad aprire gli occhi della coscienza davanti a tutte le vicissitudini che interessano la vi-ta, nostra e degli altri, presente e futura. La parola del Vangelo, e tutte le sue declinazioni che nel tempo lo hanno intessuto con la trama della storia, ci parlano della vita, della sua bellezza, della sua delicatezza e preziosità, della sua precarietà e della sua direzione eterna, della sua difesa e della sua custodia.
In occasione della festa del 2 febbraio per la Presentazione al Tempio di Gesù, la Chiesa ricorda e celebra la bellezza della vita consacrata, offerta a Dio e da Dio resa feconda, di uomini e donne che hanno scelto di donarla totalmente agli altri radicandola in Dio come risposta definitiva all’amore ricevuto. Ciò che è già benedetto da sempre quando appare nel grembo di una madre diventa vita donata nell’offerta di sé che i consacrati fanno liberamente nello stile del servizio per la costruzione del Regno di Dio.
La prima domenica di febbraio è da tanto tempo l’appuntamento con la responsabilità che ciascuno e insieme abbiamo di fronte ad ogni esistenza che riconosciamo come dono immenso e gratuito del Signore. La Vita, prima di tutto scoperta e accolta come dono. Ricevuta e custodita come un bene immenso da amare e difendere. Senza misure, senza condizioni, senza differenze che la diminuiscano o la offendano. La vita così com’è. Accompagnata e accolta dall’inizio al compimento, in ogni sua stagione, consapevoli che solo di una cosa la vita si nutre e solo di questa ha bisogno: l’amore di Dio raccontato e reso vicino dal nostro. Un vita senza aggettivi e mai lasciata da sola. In questo nostro sapere che scaturisce dalla fede è però nascosta una grande responsabilità a cui la comunità ecclesiale non può venir meno, pena la sua non credibilità. La responsabilità dell’esserci, accanto e con amore, ad ogni situazione di vita, buona o ferita, specie laddove c’è sofferenza e paura.
Ecco allora anche la giornata dell’11 febbraio, che nella memoria della Beata Vergine di Lourdes, celebra la cura e l’attenzione della Chiesa per i malati, le loro famiglie e coloro che li servono. Non un una tantum per fare vetrina di una distratta attenzione, ma il volano di una premura che dovrebbe annodare i giorni che scandiscono pesanti il tempo della sofferenza. Come ogni famiglia rallenta e prende il passo di chi più fatica quando la malattia irrompe nella sua storia, così ogni comunità cristiana non può non farsi attenta ai membri più fragili per ricalibrare il proprio cammino sulle cadenze di questi fratelli e sorelle.
Questo desiderio, e bisogno, di prendere sul serio la vita, come il dono di Dio da vive-re alla luce del suo amore e della sua misericordia, è il centro del cammino di Quare-sima che avrà inizio alla fine di questo mese. Veniamo invitati a percorrere insieme, come comunità, il sentiero luminoso della parola di Dio che ci guida alla sorgente stessa della vita e del suo rinnovamento nella Pasqua di Gesù Cristo, nostro salvatore.
Il Signore ci apra gli occhi e il cuore sul grande mistero della vita. Ci doni il suo Spirito perché possiamo sentire l’amore e la responsabilità della cura degli altri. La Vergine Madre ci educhi a pensare la nostra vita a partire dai fratelli e dalle sorelle che Dio ci ha donato.
don Luciano, vescovo

«Abbi cura di lui». La compassione come esercizio sinodale di guarigione

La malattia fa parte della nostra esperienza umana. Ma essa può diventare disumana se è vissuta nell’isolamento e nell’abbandono, se non è accompagnata dalla cura e dalla compassione. Quando si cammina insieme, è normale che qualcuno si senta male, debba fermarsi per la stanchezza o per qualche incidente di percorso. È lì, in quei momenti, che si vede come stiamo camminando: se è veramente un camminare insieme, o se si sta sulla stessa  strada ma ciascuno per conto proprio, badando ai propri interessi e lasciando che gli altri “si arrangino”. Perciò, in questa XXXI Giornata Mondiale del Malato, nel pieno di un percorso sinodale, vi invito a riflettere sul fatto che proprio attraverso l’esperienza della fragilità e della malattia possiamo imparare a camminare insieme secondo lo stile di Dio, che è vicinanza, compassione e tenerezza. Nel Libro del profeta Ezechiele, in un grande oracolo che costituisce uno dei punti culminanti di tutta la Rivelazione, il Signore parla così: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, […] le pascerò con giustizia» (34,15-16). L’esperienza dello smarrimento, della malattia e della debolezza fanno naturalmente parte del nostro cammino: non ci escludono dal popolo di Dio, anzi, ci portano al centro dell’attenzione del Signore, che è Padre e non vuole perdere per strada nemmeno uno dei suoi figli. Si tratta dunque di imparare da Lui, per essere davvero una comunità che cammina insieme, capace di non lasciarsi contagiare dalla cultura dello scarto. L’Enciclica Fratelli tutti, come sapete, propone una lettura attualizzata della parabola del Buon Samaritano. L’ho scelta come cardine, come punto di svolta, per poter uscire dalle “ombre di un mondo chiuso” e “pensare e generare un mondo aperto” (cfr n. 56). C’è infatti una connessione profonda tra questa parabola di Gesù e i molti modi in cui oggi la fraternità è negata. In particolare, il fatto che la persona malmenata e derubata viene abbandonata lungo la strada, rappresenta la condizione in cui sono lasciati troppi nostri fratelli e sorelle nel momento in cui hanno più bisogno di aiuto.
Distinguere quali assalti alla vita e alla sua dignità provengano da cause naturali e quali invece siano causati da ingiustizie e violenze non è facile. In realtà, il livello delle disuguaglianze e il prevalere degli interessi di pochi incidono ormai su ogni ambiente umano in modo tale, che risulta difficile considerare “naturale” qualunque esperienza. Ogni sofferenza si
realizza in una “cultura” e fra le sue contraddizioni. Ciò che qui importa, però, è riconoscere la condizione di solitudine, di abbandono. Si tratta di un’atrocità che
può essere superata prima di qualsiasi altra ingiustizia, perché – come racconta la parabola – a eliminarla basta un attimo di attenzione, il movimento interiore della compassione. Due passanti, considerati religiosi, vedono il ferito e non si fermano. Il terzo, invece, un samaritano, uno che è oggetto di disprezzo, è mosso a compassione e si prende cura di quell’estraneo lungo la strada, trattandolo da fratello. Così facendo, senza nemmeno pensarci, cambia le cose, genera un mondo più fraterno. Fratelli, sorelle, non siamo mai pronti per la malattia. E spesso nemmeno per ammettere l’avanzare dell’età. Temiamo la vulnerabilità e la pervasiva cultura del mercato ci spinge a negarla. Per la fragilità non c’è spazio. E così il male, quando irrompe e ci assale, ci lascia a terra tramortiti. Può accadere, allora, che gli altri ci abbandonino, o che paia a noi di doverli abbandonare, per non sentirci un peso nei loro confronti. Così inizia la solitudine, e ci avvelena il
senso amaro di un’ingiustizia per cui sembra chiudersi anche il Cielo. Fatichiamo infatti a rimanere in pace con Dio, quando si rovina il rapporto con gli altri e con noi stessi. Ecco perché è così importante, anche riguardo alla malattia, che la Chiesa intera si misuri con l’esempio evangelico del buon samaritano, per diventare un valido “ospedale da campo”: la sua missione, infatti, particolarmente nelle circostanze storiche che attraversiamo, si esprime nell’esercizio della cura. Tutti siamo fragili e vulnerabili; tutti abbiamo bisogno di quell’attenzione compassionevole che sa fermarsi, avvicinarsi, curare e sollevare. La condizione degli infermi è quindi un appello ce interrompe l’indifferenza e frena il passo di chi avanza come se non avesse sorelle e fratelli.
La Giornata Mondiale del Malato, in effetti, non invita soltanto alla preghiera e alla prossimità verso i sofferenti; essa, nello stesso tempo, mira a sensibilizzare il popolo di Dio, le istituzioni sanitarie e la società civile a un nuovo modo di avanzare insieme. La profezia di Ezechiele citata all’inizio contiene un giudizio molto duro sulle priorità di coloro che esercitano sul popolo un potere economico, culturale e di governo: «Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza» (34,3-4). La Parola di Dio è sempre illuminante e contemporanea. Non solo nella denuncia, ma anche nella proposta. La conclusione della parabola del Buon Samaritano, infatti, ci suggerisce come l’esercizio della fraternità, iniziato da un incontro a tu per tu, si possa allargare a una cura organizzata. La locanda, l’albergatore, il denaro, la promessa di tenersi informati a vicenda (cfr Lc 10,34-35): tutto questo fa pensare al ministero di sacerdoti, al lavoro di operatori sanitari e sociali, all’impegno di familiari e volontari grazie ai quali ogni giorno, in ogni parte di mondo, il bene si oppone al male.
Gli anni della pandemia hanno aumentato il nostro senso di gratitudine per chi opera ogni giorno per la salute e la ricerca. Ma da una così grande tragedia collettiva non basta uscire onorando degli eroi. Il Covid-19 ha messo a dura prova questa grande rete di competenze e di solidarietà e ha mostrato i limiti strutturali dei sistemi di welfare esistenti.
Occorre pertanto che alla gratitudine corrisponda il ricercare attivamente, in ogni Paese, le strategie e le risorse perché ad ogni essere umano sia garantito l’accesso alle cure e il diritto fondamentale alla salute. «Abbi cura di lui» (Lc 10,35) è la raccomandazione del Samaritano all’albergatore. Gesù la rilancia anche ad ognuno di noi, e alla fine ci esorta: «Va’ e anche tu fa’ così». Come ho sottolineato in Fratelli tutti, «la parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che
non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune» (n. 67). Infatti, «siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile» (n. 68).
Anche l’11 febbraio 2023, guardiamo al Santuario di Lourdes come a una profezia, una lezione affidata alla Chiesa nel cuore della modernità. Non vale solo ciò che funziona e non conta solo chi produce. Le persone malate sono al centro del popolo di Dio, che avanza insieme a loro come profezia di un’umanità in cui ciascuno è prezioso e nessuno è da scartare.
All’intercessione di Maria, Salute degli infermi, affido ognuno di voi, che siete malati; voi che ve ne prendete cura in famiglia, con il lavoro, la ricerca e il volontariato; e voi che vi impegnate a tessere legami personali, ecclesiali e civili di fraternità. A tutti invio di cuore la mia benedizione apostolica.
Roma, San Giovanni in Laterano, 10 gennaio 2023.