Agnese Moro, la Chiesa che vorrei. Sinodalità e ascolto

Agnese Moro, figlia dello statista rapito e assassinato nel 1978, giornalista pubblicista per il quotidiano «La Stampa», confessa con passione, chiarezza e trasparenza il proprio sguardo sulla Chiesa italiana, provando a tracciare fra punti di opacità e di luce una via di speranza. Per i lettori, una preziosa occasione di confronto con l’esperienza di una cristiana ‘adulta’ che vive con convinzione
il suo essere Chiesa; per i Pastori, in particolare, la possibilità di un esercizio ascolto nel nostro cammino sinodale. […]

Ombre e luci
Ho attraversato molte stagioni della chiesa. Ho ascoltato la messa in latino e portato il velo; ho visto trasportare il Papa a spalla e mi sono genuflessa davanti a lui come altrimenti si faceva solo in chiesa davanti al Santissimo; ho sentito il fervore del Concilio e l’aspirazione a una chiesa più semplice, autentica e innamorata di Cristo. Ho visto una chiesa preoccupata di perdere la propria identità e una che ha voluto farsi direttamente attore politico pensando che si dovesse duellare con il mondo con le sue stesse armi. Allontanando così tanti giovani che nella chiesa volevano trovare il volto di Gesù e la fede nella Sua mite capacità di cambiare i cuori e non un altro partito. In anni recenti mi è sembrato che i nostri pastori vivessero il mito di Sisifo, costretto a spingere perennemente verso l’alto, su per il versante di una impervia collina, un grande macigno che, una volta in cima, ricade sempre in basso. In una sfida senza fine. Ho provato una enorme tenerezza per questo sforzo, anche quando si esprimeva con atti e parole decisamente contrarie alla mitezza vigile di Gesù. Vi si scorgeva il timore di una sconfitta del Messaggio che si ama, l’affanno di dover rimediare a qualcosa che manca, l’ansia di colmare un vuoto. È come se si pensasse di essere soli di fronte al dolore del mondo e al male che vi si vede spadroneggiare. Come se quel mondo non fosse stato già redento, e a caro prezzo. Come se il bene fosse scomparso, sopito o impotente. Come se la vita, morte e resurrezione di Gesù non fossero stati sufficienti a salvare
per sempre il mondo. Come se tutto fosse affidato alle nostre forze, alle nostre parole, alla nostra intransigenza e severità. Come se la predicazione della Buona Novella, se il seme gettato non avesse la forza di crescere da solo; come se quello caduto a terra e morto non fosse più in grado di portare frutto, come se Dio tacesse e la sua grazia non fosse all’opera quotidianamente e autonomamente in mezzo a noi. Deve essere stato terribilmente angoscioso pensare che la salvezza del mondo dipendesse dalle parole, dalla forza, dal numero delle persone che è possibile mobilitare, dalle piazze piene. […]
Certe volte mi sembra che si abbia paura di prendere il Vangelo troppo alla lettera, ovvero troppo sul serio. Non so neanche se nelle nostre case ci sia l’abitudine di avere il Vangelo o la Bibbia. Non mi risulta che la conoscenza del Vangelo ia uno dei requisiti richiesti per accostarsi ai sacramenti; e non so se nelle catechesi di ragazzi e adulti abbia più spazio il catechismo o il Vangelo. Anche la partecipazione attenta alle liturgie domenicali non risolve la cosa, dal momento che risulta tutto un po’ sminuzzato, quasi a divenire un insieme di massime a meno di non avere già il quadro completo. Un esempio? Il ‘discorso della montagna’. Non c’è nemmeno una volta in tutto l’anno liturgico in cui questo discorso – così importante e fondante del senso stesso del cristianesimo – venga letto nella sua interezza. Ci viene proposto solo spezzettato. Eppure qui Gesù parla di noi; del nostro compito; del senso del nostro essere nel mondo. Quel
discorso è troppo importante. Ci viene richiesto di superare la giustizia degli scribi e dei farisei… per entrare in un Regno in cui i conti non tornano. È la strana giustizia di Dio; un Dio che Gesù dice essere l’unico buono perché fa sorgere il suo sole sui malvagi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sopra gli ingiusti (ma come! è buono se ricompensa i buoni e punisce i cattivi!); è la giustizia del padrone della parabola che dà lo stesso salario a chi ha lavorato tutto il giorno e a chi lo ha fatto solo a fine giornata; è la giustizia del Padre che corre incontro al figlio che lo ha tradito e lo abbraccia prima che abbia potuto avere il tempo di dire anche solo una parola di scuse. Una giustizia che non piace all’altro figlio che è stato sempre ubbidiente. È una giustizia che non si pone il problema di avere ragione o di punire. Ma piuttosto di fare spazio, di accogliere, di interrompere quella catena del male che viene rafforzata e perpetrata da ogni reazione di pari
segno. È questo il nostro ruolo oggi? In questo si misura il nostro essere sale e luce? Ricostruendo rapporti, combattendo il male con il bene, prendendo su di noi lo stigma che blocca milioni di vite?
Mi colpisce, oltre allo spezzettamento, il modo con cui si prendono sul serio e si predicano con forza solo alcuni pezzi del grande ‘discorso della montagna’ – e un po’ di tutto il Vangelo –, lasciandone in ombra tanti altri. Mentre dovrebbero – devono – avere tutti la stessa cogenza. Perché l’indissolubilità del matrimonio è tanto importante da mettere in dubbio
la possibilità di ricevere l’eucarestia, mentre «amate i vostri nemici» sembra più un optional? In tanti anni di confessioni nessuno mi ha mai chiesto conto del mio amore per i nemici; e nessuno è mai stato privato della possibilità di accedere all’Eucarestia perché non ama i suoi nemici. Qui sarebbe utile un poco di chiarezza: o Gesù e il suo Vangelo sono la nostra pietra angolare, o seguiamo non una persona e una fede, ma una religione di uomini con tanti riti e tante parole che però guardano alla terra anziché al cielo…

L’ascolto necessario
Questi miei pensieri liberi e disordinati sono solo esempi infinitesimali (e certamente non particolarmente significativi) di quanto potrebbe emergere se al centro del Sinodo ci fosse più e prima della ricerca di formule organizzative o di risposte a problemi noti l’impegno a un ascolto attento di ciò che la nostra chiesa è e dovrebbe essere nel cuore e nelle menti
dei tanti che da vicino o da lontano la abitano e sperano in lei per un cammino comune sulle orme del Maestro. Ma ascoltare è molto più complesso di quello che può apparire e non solo da un punto di vista organizzativo, che pure ha la sua grande importanza. Ascoltare richiede una scelta e uno sforzo. La scelta è quella di disarmarsi, e lo sforzo serve a trasformare una simile decisione in un fatto quotidiano di vita. Disarmarsi significa lasciare da parte tutto quello che ci fa guardare l’altro con ostilità e con supponenza. Bisogna lasciare andare quello che si pensa di sapere dell’altro o di quanto sta dicendo, la voglia di avere ragione, di far valere il proprio punto di vista, di rispondere e controbattere. Si deve abbandonare la paura di avere torto, di essere feriti o sopraffatti, di scoprire di dover cambiare punti di vista e comportamenti, di ritrovarsi inadeguati, di essere contaminati, contagiati o convinti dagli argomenti dell’altro. Di ritrovarsi spogliati e poveri di tante cose che si ritenevano importanti.
Scriveva il Patriarca di Costantinopoli Atenagora: Per lottare efficacemente contro la guerra, contro il male, bisogna volgere la guerra all’interno, vincere il male in noi stessi. Si tratta della guerra più aspra, quella contro se stessi. E quanto nazionalismo, in questa guerra! Bisogna riuscire a disarmarsi. Io questa guerra l’ho fatta. Per anni e anni. È stata terribile. Ma ora, sono disarmato. Non ho paura di niente, perché «l’amore scaccia la paura». Sono disarmato della volontà di avere ragione, di giustificarmi a spese degli altri. Non sono più all’erta, gelosamente aggrappato alle mie ricchezze. Accolgo e condivido. Non tengo particolarmente alle mie idee,  ai miei progetti. Se me ne vengono proposti altri migliori, li accetto volentieri. O piuttosto, non migliori, ma buoni. Lo sapete he ho rinunziato al comparativo… Ciò che è buono, vero, reale, dovunque sia, è sempre il migliore per me. Perciò non ho più paura. Quando non si possiede più niente, non si ha più paura. «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?». […]

Rivista del clero italiano, 7/8, 2021.